Ascoltare la nostra voce registrata spesso ci provoca una sensazione d’imbarazzo. Non la riconosciamo, la percepiamo come estranea. Ma c’è una buona notizia: il microfono può diventare un alleato.
Ascoltare la nostra voce registrata spesso ci provoca una sensazione d’imbarazzo. Non la riconosciamo, la percepiamo come estranea e ci fa pensare: davvero questa è la mia voce? Del resto non è neppure infrequente il panico da microfono, uno sconquasso emotivo così irruente da far schizzare l’ansia alle stelle e congelare tutto l’apparato fonatorio.
Ma c’è una buona notizia: il microfono può diventare un alleato, uno strumento utile per disvelare l’identità della propria voce.
Infatti c’è chi ha trovato la sua vera voce proprio lavorando al microfono. È il caso, per esempio, della poetessa Mariangela Gualtieri che così racconta in occasione di un recente incontro al Festivaletteratura di Mantova:
«Ho trovato la mia vera voce lavorando al microfono. Quando parlo, invece, metto alla mia voce una maschera che ormai non riesco più a togliere e che chiede agli altri cautela e affetto. L’altra voce, quella vera, è nata grazie al lungo percorso fatto con i versi recitati. Sentivo che il verso non voleva questa mia vocina mascherata; voleva invece tutta la verità di chi sono.»
Dunque qui ci troviamo di fronte ad un microfono che smaschera e rivela.
Lo trovo molto interessante e anche incoraggiante. Anziché strumento da temere, il microfono diventa un alleato, un mezzo per far emergere un suono, un ritmo, un timbro che potrebbero sorprenderci rivelandosi più autentici dei supposti tali.
Davvero questa è la mia voce?
Quando emettiamo dei suoni, la loro conduzione passa attraverso le ossa del cranio: questa risonanza interna ci fa percepire la voce in modo diverso da come appare all’esterno. La conduzione cranica, infatti, trasmette con più efficacia le basse frequenze ed è per questo che la nostra voce ci appare più profonda e armonica rispetto a come la sentono gli altri.
Ecco perché spesso non ci piace ascoltare la nostra voce registrata: la percepiamo diversa ed estranea a noi.
Rébecca Kleinberger lavora al MIT Media Lab del Massachusetts Institute of Technology e la sua ricerca è incentrata sullo studio delle informazioni acustiche e sulla relazione che le persone hanno con la propria voce e con la voce degli altri. In un suo TED Talk, intitolato Perché non ti piace il suono della tua voce, racconta la complessità della voce umana, soggetta a filtri meccanici, biologici e neurologici; e di come l’identità vocale sia il risultato di un processo che muta nel tempo.
Con sorpresa ritrovo anche qui il riferimento alla maschera, già citata da Mariangela Gualtieri. In questo contesto Kleinberger usa l’immagine della maschera per farci comprendere la differenza tra la voce esterna e la voce verso l’interno.
Dunque, in estrema sintesi, l’espressione vocale è mutevole nel tempo e condizionata da un complesso insieme di fattori.
Il microfono e la voce
Anche i dispositivi che permettono la fruizione a distanza della voce sono da considerare come fattori condizionanti. Torno perciò alla questione di partenza, ovvero al timore di affrontare il microfono e riascoltare la propria voce. Anch’io del resto, lo confesso, soffro di ansia da prestazione davanti ad un microfono e preferisco di gran lunga lavorare dietro le quinte.
L’esperienza di Mariangela Gualtieri può però aiutarci a buttare il cuore oltre l’ostacolo. Forse, in fondo, si tratta solo di cambiare prospettiva: pensare di riuscire a fare un uso più consapevole della voce proprio attraverso la mediazione tecnologica. E per arrivare a questo, andare alla scoperta delle sperimentazioni fatte dagli attori di teatro contemporaneo che, ormai da molti anni, si confrontano con voci registrate, altoparlanti, microfoni e impianti audio.
Certo, potrebbe essere senz’altro proficuo avvalersi anche di un vocal coach. Tuttavia credo che un passo importante, il primo, dovrebbe essere quello di conoscere le esperienze di chi ha già fatto un percorso di ricerca in questa direzione, di chi ha già esplorato le «immense architetture sonore che il microfono, come le antiche cattedrali, contiene» (cit. Mariangela Gualtieri).